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Sentenza n. 211/25 emessa dal Giudice Monocratico del Tribunale di Nola

dr. ARNALDO MEROLA all’udienza del 10.02.2025 dep. 11.05.2025.

a cura di

Avv. Angelo Pignatelli

***

Massima

In tema di responsabilità medica per eventi letali occorsi in gravidanza, non può ritenersi integrato il delitto di omicidio colposo ove non sia raggiunta la prova, oltre ogni ragionevole dubbio, del nesso eziologico tra le condotte omissive ascritte al sanitario e l’evento letale. Nel caso di specie, ricorrendone i presupposti, il fatto è stato riqualificato nella fattispecie di interruzione colposa della gravidanza ex art. 593-bis c.p. individuando il criterio distintivo tra la fattispecie di interruzione colposa della gravidanza e quella di omicidio colposo nell’inizio del travaglio e, dunque, nel raggiungimento dell’autonomia del feto. Infine, in mancanza di prove sul nesso causale fra la condotta colposa del sanitario e l’exitus ricollegabile anche ad un evento acuto ed improvviso (cordone a bandoliera) l’imputato veniva assolto per insussistenza del fatto.

Keyword: colpa professionale sanitario ex art. 590 sexies – riqualificazione ai sensi dell’art. 593-bis c.p. (interruzione colposa della gravidanza) – assenza nesso causalità.

Abstract

La sentenza affronta un complesso caso di responsabilità professionale sanitaria, avente ad oggetto il decesso intrauterino di un feto a termine. L’imputato, ginecologo curante, era accusato di omicidio colposo ex art. 589 c.p. in relazione all’art. 590-sexies c.p., per aver omesso la tempestiva diagnosi di diabete gestazionale e di obesità materna di grado severo, nonché per non aver disposto il ricovero della paziente in presenza di un tracciato CTG con assenza di movimenti attivi fetali. Il Giudice Monocratico, pur rilevando taluni profili di colpa nella gestione della gravidanza, ha escluso la sussistenza del nesso causale tra tali condotte e l’evento lesivo, valorizzando l’ipotesi di un evento acuto e imprevedibile (quale una compressione da cordone a bandoliera) non fronteggiabile attraverso condotte alternative doverose. Sul punto, il Giudice preliminarmente riqualificava il fatto ai sensi dell’art. 593-bis c.p. (interruzione colposa della gravidanza) e assolveva l’imputato per insussistenza del fatto in quanto l’ istruttoria dibattimentale aveva lasciato irrisolta la questione relativa all’origine dell’ipossia fetale che aveva determinato l’interruzione endouterina della gravidanza. Invero, i medesimi consulenti dell’accusa avevano ritenuto sussistente la possibilità che l’ipossia fetale potesse essere scaturita da un evento acuto e improvviso (ad esempio la compressione della vena ombelicale o complicazioni connesse alla presenza di un cordone a bandoliera), invece che dalle patologie di obesità e di diabete gestazionale da cui la paziente era affetta, inizialmente prospettati in consulenza come unici fattori patogenetici. La sola presenza di almeno due ricostruzioni alternative, sottolinea il Giudicante, provenienti dallo stesso collegio di consulenti, è di per sé sufficiente a far sorgere il ragionevole dubbio circa l’interferenza di fattori alternativi nella concatenazione causale. L’impossibilità di ricostruire in termini di certezza processuale il decorso causale dei fatti non consente di addebitare la morte del feto, alla condotta dell’imputato quale soggetto titolare della posizione di garanzia. La decisione si pone nel solco di quell’orientamento giurisprudenziale che, in tema di colpa medica, impone un rigoroso accertamento del nesso di causalità alla stregua del principio dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” ex art. 533 c.p.p.

Fatto contestato

Si contestava al sanitario imputato TIZIO il delitto previsto e punito dall’art. 589 c.p., in relazione all’art. 590 sexies c.p., perché nell’esercizio delle sue funzioni di medico – ginecologo che ha avuto in cura una paziente durante tutto  il corso della gravidanza, sia presso il suo studio privato sia durante i controlli presso l’Ospedale XXX in prossimità del parto, per colpa consistita in negligenza ed imprudenza, in particolare: omettendo di effettuare alla gestante una diagnosi di diabete mellito gestazionale, in presenza in data 2.4.2020 di una “curva da carico di glucosio” pari a 193 mg/dl nell’arco di 60 minuti (valore norma 70- 110), nonché una diagnosi di obesità di II grado, patologie che avrebbero richiesto frequenti indagini strumentali quali biometrie fetali ecografiche, doppler flussimetria dei vasi materni e fetali, calcolo del Profilo-Biofasico-Fetale e tracciati cardiotografici e siero ematologiche; omettendo in data 19.5.2020  (a circa 40 settimane di gestazione), in presenza di un tracciato CT Grafico che evidenziava l’assenza di       movimenti attivi fetali per circa un’ora (57 minuti), il tempestivo ricovero della gestante al fine di effettuare un controllo anche due volte al giorno – delle condizioni cardiocircolatorie fetali ed indagine ecografica con doppler flussimetria dell’arteria ombelicale e dell’arteria cerebrale media allo scopo di identificare alterazioni flussimetriche ed una eventuale centralizzazione del circolo fetale, cagionava in   data 27.5.2020 il decesso del feto estratto dal corpo della paziente, decesso riconducibile ad un’insufficienza materno – placentare con conseguente ipossia fetale. Evento occorso il 27.05.2020.

Stralcio della motivazione della sentenza

Limitando il contenuto della motivazione all’esame dei consulenti per brevità si riporta solo la parte motiva della sentenza in cui si affrontano le contrapposte tesi in ordine alla responsabilità del sanitario.

Si legge in sentenza :<< Al fine di accertare le cause del decesso del feto estratto dal corpo della MEVIA e la sussistenza di eventuali profili di responsabilità in capo ai sanitari che avevano in cura la donna durante il periodo della gestazione (ovvero l’imputato TIZIO ) e in regime di ricovero per il parto presso l’Ospedale XXX, nel corso delle indagini veniva conferito collegialmente incarico peritale al dott. M. E. (professore nelle Lauree Specialistiche presso la facoltà medica dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”), al dott. A.L. (professore ordinario di ginecologia e Ostetricia), e alla dott.ssa C.B. (specialista in Anatomia e Istologia Patologica).

In merito alle cause dell’exitus, all’esito dell’esame autoptico e di quello istologico e dell’analisi della documentazione sanitaria esaminata, gli stessi, come riportato nella consulenza medico-legale e nella relativa integrazione a loro firma (cfr. relazione ed integrazione, in atti), concludevano che la morte endouterina del feto partorito da MEVIA in data 27 maggio 2020 fosse riconducibile “ad                              un’insufficienza materno-placentare su base coriangiosica ed infartuale con conseguente ed ingravescente ipossia fetale ad evoluzione esiziale sopraggiunta in gravida affetta da diabete mellito di tipo II gestazionale alla 33º settimana (cfr.: curva da carico di glucosio effettuata presso struttura sanitaria privata in data 2.4.20 con rilievo a 60 minuti e 120 minuti di glicemia di 193 e 186 mg/dl) complicato da obesità di tipo II nello specifico documentata da un indice di massa corporea-BMI- pari a 38.52 (cfr.: cartella anestesiologica ove si evince il peso di Kg. 92; controllo clinico ambulatoriale effettuato in data 6.11.19: altezza di cm. 171)”. Tale rilievo risultava integrato anche dalla presenza di multiple aree infartuali in sede placentare, costituenti lesioni nosograficamente inquadrabili come “acute” ed in tal senso caratterizzate da necrosi ed infiltrazione ematica e “croniche”, nello specifico documentate dalla sclerosi vasale secondaria all’organizzazione connettivale di (pregressi) fatti emorragici acuti. In aggiunta venivano descritte aree di necrosi fibrinoide intervillosa ed agglomerati di sinciziotrofoblasto intermedio. In particolare, il collegio peritale riteneva che l’obesità e il diabete gestazionale avessero innescato nella gestante, in apparente benessere fino all’aprile 2020, una graduale e ingravescente fenomenologia morbosa produttiva di fatti ipossici, ad evoluzione prognostica sfavorevole per il feto, in base ad una “cascata” di eventi patogenetici, nello specifico (a partire dal prolungato stato ipossico): sfruttamento a fini energetici del metabolismo anaerobio, produzione di acido lattico, aggravamento dell’acidosi (respiratoria e metabolica), danno neurologico e cardiaco e, infine, exitus.

Quanto alla sussistenza di profili di responsabilità professionale a carico dei sanitari che avevano gestito la MEVIA in ambito nosocomiale, il collegio peritale evidenziava in primo luogo che il diabete gestazionale risultava già diagnosticabile nel mese di aprile, allorquando, in data 2 aprile 2020, la donna si sottoponeva all’esame della curva da carico di glucosio che mostrava chiaramente valori compatibili con diabete gestazionale.

A tal proposito, il collegio richiamava l’ampia letteratura scientifica secondo la quale non solo il diabete pre-gestazionale, ma anche quello gestazionale è associato a un aumento significativo del rischio di morte fetale – con un’incidenza che supera i 30 casi ogni mille nelle gravidanze complicate da diabete gestazionale – e che l’entità delle complicanze perinatali si correla strettamente ai livelli glicemici nelle fasi avanzate della gestazione. I periti evidenziavano, altresì, che i progressi dell’assistenza ostetrica avevano in parte ridotto tali rischi, benché le gestanti con diabete gestazionale continuassero a presentare tassi più elevati di morbilità e mortalità perinatale, di macrosomia fetale, di distocia di spalla e di ipertensione indotta dalla gravidanza.

Secondo i consulenti del PM nel caso di specie era evidente che dagli atti non risultava alcuna valutazione strutturata del rischio a carico della gestante né, specificamente, del rischio di morte endouterina del feto, così come le Linee Guida Internazionali e gli standard nazionali (che si rifanno alle Linee Guida dell’American Diabetes Association del 2017) imponevano di fare.

In ordine all’obesità da cui la gestante era affetta, gli specialisti che si occupavano del caso della MEVIA durante la gravidanza e in occasione dell’accesso al Pronto Soccorso nel maggio 2020 presso l’Ospedale di XXX, non tenevano conto del fatto che la condizione clinica legata all’obesità costituiva un ulteriore e severo fattore di rischio sia materno che fetale.

Con riferimento al rapporto tra obesità, diabete gestazionale e morte endouterina fetale, e richiamando la letteratura scientifica sull’argomento, il Collegio precisava, infatti, che era stato dimostrato come, nelle gestanti in sovrappeso o obese, la morte fetale fosse spesso associata a complicanze e disfunzioni placentari, le quali a loro volta determinavano restrizione della crescita fetale (IUGR).

Nel caso in esame, si evidenziava inoltre che gli specialisti che avevano in cura la MEVIA disattendevano completamente le raccomandazioni relative alla diagnosi e alla gestione dell’obesità in gravidanza, così come riportate nelle Linee Guida dell’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG) 2015, del Royal College of Obstetrics and Gynaecology (RCOG) 2010, del Royal Australian and New Zealand College of Obstetricians and Gynecologists (RANZCOG) 2013 e della Society of Obstetrics and Gynecologists of Canada (SOGC) 2010 (Vitner D et al., Obesity in pregnancy: a comparison of four national guidelines, J Matern Fetal Neonatal Med 2019; 32:2580- 2590). Alla luce di quanto riportato in letteratura, il collegio condivideva l’opinione secondo cui la gestante obesa doveva essere informata in maniera puntuale ed esaustiva sui gravi rischi materno-fetali correlati alla sua condizione. Sarebbe stato opportuno, già nell’aprile 2020, indirizzarla presso un Centro per la cura dell’Obesità, dove avrebbe potuto seguire una dieta più adeguata e personalizzata al suo quadro clinico.

Inoltre, considerata la compresenza di obesità e diabete mellito, la paziente doveva essere sottoposta a controlli strumentali più frequenti (biometrie fetali ecografiche, Doppler flussimetria dei vasi materni e fetali, calcolo del Profilo Biofisico Fetale, tracciati cardiotocografici anche computerizzati) e ad analisi siero-ematologiche ripetute, nonché ad un’eventuale terapia antitrombotica personalizzata. In ordine al risultato dell’esame cardiotocografico eseguito il 19 maggio 2020, dalle ore 20:16 alle 21:13, il Collegio, in riferimento all’evidenza diagnostica di assenza di movimenti attivi fetali per ora, documentata dalla lettura computerizzata del tracciato, osservava che, secondo opinione pienamente condivisa nella letteratura scientifica, la diminuzione dei movimenti attivi fetali, con sole tre accelerazioni sincrone, fosse comunemente interpretata come risposta a una ridotta perfusione placentare, finalizzata a preservare energia e ossigenazione agli organi nobili (cervello e cuore).

Altri autori, in letteratura, avevano poi rilevato che la marcata riduzione o assenza dei movimenti attivi fetali, unitamente alla presenza di tre accelerazioni in una registrazione di sessanta minuti (FAD, Fetal Acceleration Determination) fosse di significato sfavorevole e rappresentasse un chiaro segnale di pericolo. Inoltre, si sottolineava che la riduzione o l’assenza dei movimenti attivi fetali per un periodo prolungato, talvolta di diversi giorni, potesse anticipare la morte in utero.

Alla luce di quanto osservato, si riteneva che l’assenza di movimenti attivi fetali alla quarantesima settimana, in una gestante ad alto rischio per obesità di II grado e diabete gestazionale, richiedesse, in data 19 maggio 2020, un tempestivo ricovero con controlli giornalieri – e talvolta bi-giornalieri – delle condizioni cardiocircolatorie fetali, nonché un’indagine ecografica con dopplerflussimetria dell’arteria ombelicale e dell’arteria cerebrale media, al fine di identificare precocemente un’eventuale centralizzazione del circolo fetale (cosiddetto brain sparing), espressione di una fase di ipossia sistemica. In conclusione, tenuto conto delle problematiche sopra descritte, si ritenevano sussistenti profili di responsabilità professionale a carico degli specialisti che si occupavano del caso, sia durante la gestazione sia nell’osservazione di Pronto Soccorso del 19 maggio 2020 alle ore 20.11 presso l’Ospedale di XXX.

Epperò, va fin da subito precisato che i componenti del collegio peritale, escussi congiuntamente nel corso dell’istruttoria, nel rendere chiarimenti in ordine alle conclusioni riportate nell’elaborato in atti, sono giunti ad una parziale smentita delle stesse.

Innanzitutto, il dott. D.L. ha ribadito che la gravidanza della MEVIA era qualificabile come   gravidanza, non semplicemente a rischio, ma ad alto rischio, atteso che, unitamente al rischio di parto pretermine, andavano valutati congiuntamente altri parametri, quali lo stato di obesità della donna già in fase pre-gestazionale e l’insorgere del diabete gestazionale.

Quanto alla diagnosi di obesità della gestante, il consulente ha precisato che, tenuto conto dei dati riportati sulla cartella anestesiologica, in fase pregravidica la donna fosse affetta da obesità di primo grado, con un peso di 92 kg e indice BMI pari a 30.

Quanto, invece, alla diagnosi di obesità gravidica, la stessa di regola sarebbe dovuta intervenire nei primi periodi della gravidanza e, sul punto, il consulente ha riferito di non sapere, stante l’assenza di documentazione in merito, se il dott. TIZIO, ginecologo di fiducia della MEVIA, avesse effettuato la rilevazione del peso in tale fase. Quanto al peso di 114 kg che la gestante raggiungeva all’esito della gravidanza e alla diagnosi di “obesità di II grado”, con indice BMI pari a 38.53, il dott. D.L. ha chiarito che tale ultimo dato era di trascurabile rilevanza ai fini del quesito posto, mentre peculiare attenzione andava posta sulla condizione iniziale pregravidica di “obesità di primo grado” della donna, costituendo già di per sé rischio di mortalità e morbilità prenatale. Ciò, in modo particolare, nell’ipotesi in cui all’obesità era associata la diagnosi di diabete gestazionale, alla cui base, nel caso di specie, andava posto il risultato dell’accertamento laboratoristico “curva dopo carico di glucosio” a cui        la MEVIA si sottoponeva, su prescrizione del dott. TIZO, in data 2 aprile 2020, ossia alla trentatreesima settimana gestazionale. Tale accertamento, infatti, evidenziava come risultato 84 mg/dl al tempo 0,193 mg/dl (70-110) dopo 60 minuti e 186 mg/dl dopo 120 minuti, ovvero valori dal carattere nettamente patologico.

Su domanda della difesa, il dott. E. ha precisato che non venivano rinvenute nella documentazione esaminata prescrizioni da parte del dott. TIZIO dell’effettuazione della curva glicemica in corrispondenza della ventiquattresima e la ventisettesima settimana di gravidanza, ossia il corretto periodo in cui tale rilevazione doveva essere effettuata. In ogni caso, il consulente ha precisato che il momento dell’effettuazione dell’esame non avrebbe inciso in alcun modo sulla correttezza della diagnosi di diabete gestazionale, ma solo sulla tempestività della stessa; sicché, se fosse stata effettuata dal dott. TIZIO alla trentatreesima settimana, sarebbe stata da considerarsi solamente tardiva. D’altra parte, come già indicato in consulenza, tale diagnosi avrebbe imposto cure specifiche e l’affidamento della gestante alle cure di specialisti afferenti al Centro Antidiabetico.

In ordine al risultato dell’esame cardiotocografico effettuato dalla MEVIA in data 19 maggio 2020 dalle ore 20.16 alle ore 21.13, a circa 40 settimane di gestazione, presso il reparto di Ostetricia e   Ginecologia dell’Ospedale di XXX, il dott. D.L., riportandosi alla consulenza, ha riferito che la lettura computerizzata di tale accertamento diagnostico-strumentale segnalava la frequenza cardiaca di circa 145 e una variabilità basale nella norma, ma “00 movimenti attivi” per ora e la presenza di tre accelerazioni (FAD Fetal Acceleration Determination). In sostanza, non vi era stato alcun movimento attivo fetale in un’ora, a fronte di almeno dieci/quindi movimenti fetali, sincroni all’accelerazione del battito cardiaco, che il nascituro avrebbe dovuto avere.

Tale circostanza in una gestante di 40 settimane e ad alto rischio, per lo stato di obesità e la patologia di diabete gestazionale, avrebbe richiesto un tempestivo ricovero della donna, al fine di effettuare un controllo quantomeno giornaliero delle condizioni circolatorie, e un’indagine ecografica con doppler flussimetria dell’arteria ombelicale e dell’arteria cerebrale media, allo scopo di indentificare alterazioni flussimetriche ed una eventuale centralizzazione del circolo fetale. Nessun delle due evenienze veniva effettuata da parte degli specialisti del reparto di Ostetricia e Ginecologia dell’Ospedale di XXX.

Alla specifica domanda della difesa di Parte Civile, se un più efficace controllo mediante cardiotocografia avrebbe consentito di identificare precocemente segni dell’insulto ipossico ingravescente, il dott. D.L. ha risposto che tale accertamento consente di individuare dei segnali preliminari che possono condurre a una grave insufficienza del feto-placentare e a una sofferenza fetale conclamata; tuttavia, non è in grado di preannunciare la morte fetale, atteso che quest’ultima può essere conseguenze anche di altri eventi improvvisi e acuti.

Circa la possibilità di salvare il feto provvedendo ad un parto cesareo di urgenza, il consulente ha spiegato che, stante la presenza di insufficienza cronica e di corangiosi della placenta, dovuti al       diabete e all’obesità della MEVIA l’individuazione di segni cardiotocografi di sofferenza fetale preliminari – quali, brachicardie prolungate, decelerazioni tardive molto gravi, un tracciato piatto – avrebbe consentito un intervento salvifico; tuttavia, nel caso in cui si fosse verificato un evento acuto e improvviso, con la preesistenza di un’insufficienza cronica, non sarebbe stato possibile, a dire del dott. D.L. affermare in maniera apodittica che l’esecuzione di un parto cesareo avrebbe consentito di salvare il bambino.

Ed invero, su precisa domanda della difesa, il dott. D.L. ha, poi, precisato che in generale non sempre la gestante percepisce dal punto di vista sintomatologico l’interruzione della gravidanza e, d’altra parte, la stessa MEVIA si allarmava solo quando la mattina del 25 maggio 2020 non percepiva più i movimenti fetali. A tal proposito, nel caso di specie, il consulente prendeva in considerazione evenienze non valutate in consulenza, ossia il verificarsi di un evento acuto, dovuto anche alla presenza di un cordone a bandoliera, quale una compressione della vena ombelicale, che, innestatasi su un’insufficienza feto-placentare, avrebbe comportato l’impossibilità di salvare il bambino, anche qualora la MEVIA fosse stata sottoposto a monitoraggio cardiotocografico costante.

In ordine ai risultati dell’esame istologico, la dott.ssa B.C. ha, poi, chiarito che la presenza di multiple aree infartuali della placenta è un fenomeno naturalmente connesso all’invecchiamento della stessa nella fase terminale della gravidanza; pertanto, di per sé non costituisce un rischio per la salute del bambino, ma se connesso ad alterazioni e fenomeni regressivi dovuti allo stato metabolico materno – nel caso di specie, l’obesità e il diabete della gestante determinavano l’insorgere di aterosi, ossia l’ispessimento delle pareti arteriolari della placenta con alterazione dei meccanismi metabolici– può essere indice di sofferenza fetale. Allo stesso modo, anche la focale coriangiosi rilevata sulla placenta della MEVIA  pur potendo essere interpretato come segno di una criticità, a dire della dott.ssa  B.C., isolatamente considerata per la sua ridotta entità non era tale da cagionare il tragico evento. Quanto alle condizioni del feto dal punto di vista anatomopatologico, la consulente ha, poi, aggiunto che il peso (3, 750 kg) e il funzionamento degli organi e dei tessuti erano regolari e, su precisa domanda della difesa, il dott. D.L. ha precisato che dalla documentazione esaminata non veniva riscontrata un’alterazione flussimetrica.

Infine, in ordine al momento del verificarsi dell’esito fatale, dalla documentazione medica in atti (cfr. verbale di pronto soccorso del 19 maggio 2020), emergeva che in data 19 maggio 2020, erano ancora presenti il battito cardiaco e i movimenti fetali attivi, e che in data 27 maggio 2020 il feto veniva estratto già privo di vita. L’imputato, dal canto suo, nel corso dell’esame dibattimentale ha negato gli addebiti a lui mossi, riferendo preliminarmente di avere incontrato per la prima volta i coniugi MEVIA nel settembre del 2019, in occasione della loro prima gravidanza. In quella sede, il medico effettuava l’anamnesi clinica personale e familiare dei predetti e, poi, sottoponeva la donna all’ecografia, constatando la regolarità della gravidanza. Il dott. TIZIO ha, poi, aggiunto che, sempre in quella sede, procedeva, altresì, alla rilevazione del peso della gestante, visibilmente in leggero sovrappeso, e la informava dell’esigenza di seguire una corretta alimentazione nel corso della gestazione, anche alla luce dei rischi connessi all’assunzione di specifici alimenti. Dopo la prima visita, la MEVIA si era poi regolarmente sottoposta a visita ginecologica ogni mese, eccetto alla ventiduesima settimana, quando effettuava l’ecografia morfologica presso il presidio Ospedaliero di XXX. Sul punto, l’imputato ha precisato che, non essendo di turno presso la struttura, l’esame veniva eseguito da un altro collega, che confermava la regolare prosecuzione della gravidanza. Quanto agli esami che, in osservanza alle Linee Guida, il dott. TIZIO aveva prescritto alla paziente, questi ha dichiarato che alla ventiquattresima settimana di gestazione prescriveva l’esame della curva da carico di glucosio, volto a rilevare l’eventuale insorgenza di diabete gestazionale; tuttavia, recatasi al successivo controllo, in corrispondenza alla trentesima settimana di gestazione, la donna affermava che non era stato possibile sottoporsi a tale accertamento presso laboratori specializzati, a causa delle misure di lockdown adottate per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid-19. Il dott. TIZIO, a quel punto, le               prescriveva nuovamente il medesimo accertamento e la sollecitava a effettuarlo nel più breve tempo possibile, trattandosi di esame che è consigliato fare entro la ventottesima settimana di gravidanza. A dire del medico, però, la MEVIA effettuava l’esame solamente dopo circa venti giorni dalla seconda prescrizione, alla trentatreesima settimana, ossia quasi all’esito della gravidanza. Invero, l’imputato ha riferito che aveva modo di visionare in relativi esiti proprio nel corso dell’ultima visita effettuata presso il suo studio dalla gestante, quando questa era ormai giunta alla trentacinquesima settimana di gravidanza. In ogni caso, egli ha aggiunto che, come nelle rilevazioni effettuate in precedenza nel corso della gravidanza, la glicemia basale era nella norma e, di conseguenza, non era possibile definire la paziente diabetica. I valori del post carico glicemico erano, invece, certamente più alti rispetto a quelli che avrebbe dovuto rilevare se l’esame fosse stato effettuato alla ventottesima settimana, ma ciò era giustificato dalle modifiche ormonali indotte dalla placenta nella fase finale della gravidanza, che determinavano un aumento dell’insulino-resistenza. D’altra parte, l’imputato ha riferito che nemmeno erano stati rilevati altri indici che potessero far propendere per una diagnosi di diabete, né in relazione alla madre, data l’assenza di glicosuria, né in relazione al feto. Ed invero, segnatamente allo stato di quest’ultimo, a dire del dott. TIZIO, non veniva rilevato né un ritardo della crescita, possibile conseguenza dei danni da iperglicemia della placenta, né una macrosomia dello stesso, anch’essa possibile conseguenza dell’eccessivo livello di zuccheri in caso di diabete gestazionale. Esibite, poi, dalla difesa alcune prescrizioni mediche, l’imputato ha confermato che si trattasse di quelle effettuate nei confronti della MEVIA, di cui però non conservava copia. In ordine all’accesso effettuato dalla donna in data 19 maggio 2020 presso il presidio ospedaliero di XXX, l’imputato ha premesso che, aveva da poco iniziato il proprio turno, quando prendeva in carico la MEVIA, la quale, ormai alla quarantesima settimana di gestazione, era giunta presso il nosocomio lamentando dolenzie pelviche. In quell’occasione, la donna, dopo i controlli preliminari (controllo della pressione arteriosa, della temperatura corporea e controlli “Covid”), veniva sottoposta a visita ostetrica e, di seguito, a cardiotocografia ed ecografia. Quanto agli esiti della cardiotocografia, il dott. TIZIO ha riferito che, dalla lettura computerizzata dei dati, risultavano rispettati i criteri Dawes/Redman, indice di benessere fetale. In particolare, la frequenza cardiaca fetale risultava essere di sei millisecondi ed era, dunque, nella norma, atteso che il valore di rischio ipossico è fissato in tre millisecondi. In ordine all’assenza di movimenti fetali, l’imputato ha, invece, spiegato che il tipo di cardiotocografo impiegato non rilevava in maniera autonoma i movimenti fetali, ma era collegato ad un pulsante che la paziente premeva quando, in corso di tracciato, avvertiva il feto muoversi. In ogni caso, in quella circostanza, il medico procedeva anche al controllo del liquido amniotico e della flussimetria dell’arteria ombelicale, anch’essi nella norma. L’imputato ha, poi, dichiarato che reincontrava la MEVIA direttamente in data 25 maggio 2020, presso il reparto di ginecologia del presidio ospedaliero di XXX. Appreso che la stessa non avvertiva più i movimenti fetali da diverse ore, la sottoponeva immediatamente ai dovuti controlli, constatando l’assenza dell’attività cardiaca fetale. In quella stessa giornata, la donna veniva, quindi, ricoverata per l’induzione del parto, che, dopo la somministrazione di specifici farmaci e diverse ore di travaglio, si verificava tra la notte del 26 e quella del 27 maggio. All’operazione prendeva parte anche il dott. TIZIO, il quale ha precisato che il feto, nato morto, presentava segni di macerazione e, pertanto, il momento dell’interruzione della gravidanza era compatibile con la mattina del 25 maggio, quando la madre si era accorta di non sentire più il bambino. Il feto presentava, inoltre, il cosiddetto “cordone a bandoliera” e la placenta era calcifica, presentando un aspetto biancastro, dovuto, così come poi appurato dall’esame istologico, dal fatto che la stessa era infartuata. Quanto alle cause dell’exitus, l’imputato ha, quindi, dichiarato che lo stesso poteva essere derivato da un fatto acuto, unito a una difficoltà placentare da insufficienza

A conferma di quanto dichiarato dall’imputato sono stati escussi in dibattimento il dott. G.A. medico chirurgo, specialista in Medicina Legale, e il dott. G.S. medico chirurgo, specialista ostetrico ginecologo sessuologo, già Dirigente della Sezione autonoma gravidanze a rischio  dell’Ospedale SS. ASL NA1 e già docente della I e II scuola di specializzazione di Medicina Legale II Università di Napoli, i quali, illustrando la relazione di consulenza tecnica medico- legale redatta su incarico dello stesso, non hanno ritenuto recepibili le considerazioni cui giungevano i consulenti del PM, in quanto non aderenti al concreto evolversi della vicenda clinica, contraddittorie e frutto di un inadeguato ragionamento valutativo medico legale. Ed invero, in primo luogo, in ordine alle diagnosi di obesità, i consulenti del PM ancoravano le proprie conclusioni sull’esistenza di un’obesità di II grado esclusivamente sul peso di 114 kg registrato al termine della gravidanza e indicato sulla scheda di profilassi della TEV. Tuttavia, essi pervenivano a tale diagnosi senza esaminare correttamente la documentazione sanitaria, poiché avrebbero dovuto considerare il peso pregravidico o, quanto meno, quello alla dodicesima settimana, che risultava di 92 kg al controllo del 6 novembre 2019. D’altronde, anche calcolando il BMI con il peso di 114 kg e l’altezza di 1,75 m, emergeva un valore di circa 37,22 (e non 38,52), appena sopra il confine tra obesità di I e II grado. Al primo trimestre di gravidanza, invece, il BMI della paziente si attestava intorno a 30,04, corrispondente al limite tra sovrappeso e obesità di I grado, e non avrebbe dunque giustificato la diagnosi di obesità di II grado.

Secondo le linee guida SIGO, si doveva fare riferimento al BMI pregravidico per valutare il rischio di diabete gestazionale; invece, i consulenti avevano fondato la diagnosi su un dato errato, come d’altronde avevano ammesso in sede di escussione dibattimentale, durante l’udienza del 10 novembre 2023. In sostanza, il parametro valutativo scelto non era idoneo e la paziente non poteva essere considerata affetta da obesità di II grado. 

Quanto alla diagnosi di diabete gestazionale formulata dai consulenti del PM sulla scorta dei parametri rilevati dalla curva da carico di glucosio praticata dalla gestante in data 2 aprile 2020 (alla 33a settimana di gestazione, con valori di 84 mg/dl a digiuno, 193 mg/dl dopo un’ora e 186 mg/dl dopo due ore.), il dott. S. e il dott. A. evidenziavano che secondo quanto indicato nelle Linee            Guida Ministeriali, i parametri cosiddetti “patologici” erano rappresentati da una glicemia a digiuno pari a 292 mg/dl, oppure da una glicemia, dopo un’ora dal carico glicemico, di 2180 mg/dl, e dopo due ore, di 2153 mg/dl. Inoltre, i consulenti tecnici del Pubblico Ministero, nella propria relazione, utilizzavano spesso – erroneamente e in modo intercambiabile – le definizioni di diabete mellito di tipo II (senza, peraltro, distinguere tra forma insulino-dipendente e non) e quelle di diabete gestazionale, sebbene si trattasse di due condizioni patologiche profondamente differenti. Secondo i   consulenti della difesa, infatti, la MEVIA non aveva mai presentato alterazioni ematochimiche della glicemia a riposo – circostanza confermata dagli stessi consulenti tecnici del PM – e, pertanto, non poteva essere considerata affetta da diabete. Inoltre, gli esami delle urine eseguiti durante la gravidanza e, soprattutto, al momento del ricovero in ospedale per il parto non rilevavano né chetonuria né glicosuria. Di conseguenza, la paziente non era definibile come diabetica scompensata. In ordine alla positività di alcuni valori ematochimici emersi dalla curva da carico eseguita in data 2         aprile 2020, si rilevava che il parametro della glicemia a digiuno rientrava nella norma.

Sul punto, quindi, i consulenti della difesa sottolineavano che la curva da carico di glucosio era stata effettuata alla trentatreesima settimana di gestazione, mentre solitamente tale esame veniva prescritto tra la ventiquattresima e la ventottesima settimana. Dalla documentazione clinica (cfr. prescrizioni a firma del dott. TIZIO) emergeva, infatti, con chiarezza che per due volte si era proceduto a richiedere l’esecuzione della curva glicemica: il 17/02/20 (alla ventiseiesima settimana) e il 16/03/20 (alla 31ª settimana). Secondo le Linee Guida Italiane la curva da carico orale di glucosio andava prescritta non oltre la ventottesima settimana a causa delle modificazioni metaboliche ed endocrine a effetto “diabetogeno”, indotte dalla placenta e dal feto e, d’altra parte, non esistevano parametri di riferimento internazionali per la valutazione dopo la ventottesima settimana di gestazione. Nel caso in esame, invece, la circostanza che fosse stata eseguita alla trentatreesima settimana, dunque oltre il termine ultimo, la privava di validità diagnostica. A scongiurare la diagnosi di diabete gestazionale, a parere dei consulenti della difesa, interveniva anche l’incongruenza della stessa rispetto ai parametri biometrici fetali, atteso che il feto non era macrosomico, né presentava altri segni tipici della patologia diabetica, e non era affetto da ritardo di crescita intrauterino. Allo stesso modo, la placenta risultava normale, per peso e dimensioni, senza evidenza di iperplacentosi o ispessimento cotiledonare. In sostanza, la diagnosi di diabete gestazionale non trovava riscontro né nelle linee guida né nei rilievi clinico autoptici. In riferimento al tracciato cardiotocografico eseguito in data 19 maggio 2020, i consulenti della difesa osservavano che lo stesso era stato interpretato dai consulenti del PM in modo parziale, concentrandosi unicamente sull’assenza di movimenti attivi fetali (MAF) nel corso dell’esame (zero MAF/ora) e attribuendo ad essa un eccessivo valore predittivo negativo, come se costituisse “segnale di pericolo” premonitore di morte in utero. Essi rimarcavano però che, secondo le linee guida SIGO 2012, i movimenti fetali si attestavano mediamente intorno a 10 in 12 ore, per cui non risultava affatto improbabile non rilevarne durante un breve monitoraggio cardiotocografico.

I consulenti della difesa sottolineavano inoltre che il parametro dei “MAF” dipendeva esclusivamente dalla pressione di un pulsante da parte della gestante nel momento in cui avvertiva il feto muoversi, rendendolo del tutto soggettivo. Veniva invece ignorato il referto computerizzato che, in base ai criteri di Dawes-Redman, indicava piena regolarità: in particolare la variabilità a breve termine risultava nei limiti di normalità, confermando il benessere fetale.

A dire del dott. S. inoltre, la circostanza che, come riconosciuto dagli stessi consulenti del PM, al controllo del 19 maggio 2020, il feto era vivo (non vi erano contrazioni né dilatazione cervicale, e i movimenti venivano comunque riferiti dalla paziente), smontava il presupposto stesso della perizia basata sull’“assenza” di MAF.

Infine, i consulenti della difesa rilevavano che il referto del Pronto Soccorso emesso in tale data registrava anche la valutazione del liquido amniotico e la flussimetria dell’arteria ombelicale, entrambe nella norma, elementi oggettivi che avrebbero rafforzato la diagnosi di regolare evoluzione della gravidanza ma che non erano stati minimamente considerati dai consulenti del PM.

Questi ultimi, inoltre, avevano sottolineato l’“utilità” della velocimetria Doppler, ritenendo che essa avrebbe potuto prevenire il decesso fetale, richiamando a tal fine le Linee Guida SIOG 2015. Sul punto, i consulenti della difesa, però, osservavano che quelle stesse Linee Guida indicavano chiaramente che le gravidanze da sottoporre all’esame Doppler fossero quelle complicate da ipertensione, preeclampsia o iposviluppo fetale. Nel caso di specie, invece, il feto era nato con un peso di 3.750 g e il liquido amniotico risultava in quantità normale, condizioni che non rientravano tra quelle a rischio secondo SIOG. Nel corso dell’istruttoria dibattimentale, poi, gli stessi consulenti del PM richiamavano un’ulteriore ipotesi di causa di morte, ossia un evento acuto ipossico legato al giro di cordone a bandoliera, descritto in cartella clinica al momento del parto ma del tutto ignorato nella consulenza originaria.

In ordine, poi, alle cause della morte fetale, il dott. A. e S. evidenziavano, in primo luogo, che i consulenti del PM escludevano categoricamente altri fattori eziopatogenetici, sostenendo che la degenerazione placentare fosse riconducibile al solo diabete. I consulenti della difesa, invece, rilevavano che il referto istologico indicava soltanto una “focale corangiosi” e non una corangiosi diffusa. Spiegavano che, per definizione, la corangiosi patologica richiedeva la presenza di oltre dieci capillari in almeno dieci villi terminali in tre aree non infartuate della placenta, mentre nel caso in esame il reperto era limitato e compatibile con l’adattamento fisiologico dei villi al massimo apporto di ossigeno nel terzo trimestre. Essi sottolineavano quindi che quella descritta non fosse una degenerazione patognomonica da diabete gestazionale, ma piuttosto un fenomeno puntiforme tipico di placenta a termine, come peraltro confermato anche dalla dott.ssa Buonomo in udienza. Mancavano, poi, del tutto i segni associati al diabete materno placentare: il feto non presentava macrosomia, ritardo di crescita né alterazioni del liquido amniotico o della flussimetria, e la biometria post mortem era nei limiti normali. In definitiva, i consulenti ritenevano che il collegio avesse interpretato in modo errato e forzato la descrizione istologica, arroccandosi su un’unica ipotesi diagnostica non suffragata dagli elementi clinici e autoptici disponibili. Il caso di specie rappresentava chiaramente una “MEF” (morte endouterina fetale), condizione in cui             in non pochi casi la causa del decesso rimaneva sconosciuta malgrado autopsia e test diagnostici approfonditi. Nella letteratura si stimava che soltanto in circa il 40 % dei casi post mortem si  identificasse un’origine, per cui era del tutto plausibile che in questo frangente fossero rimaste inesaminate cause genetiche e infettive (ad esempio da parvovirus), mai indagate né discusse dai CTU del PM.

I consulenti della difesa contestavano inoltre che fosse stato trascurato il rilievo, descritto in cartella, del giro di cordone a bandoliera sopra la spalla, fattore capace di provocare acuti episodi di ipossia nel passaggio del feto durante la fase prodromica del travaglio. Essi sottolineavano che questa evenienza non era stata minimamente valutata nella perizia originaria.

Si rimarcava, poi, come non fosse stato rispettato il “Protocollo di indagini e di riscontro diagnostico nella morte improvvisa del feto” pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 7 ottobre 2014, che imponeva un iter articolato tra indagine medico legale, autopsia, diagnosi molecolare infettivologica, accertamento tossicologico e approfondimenti genetici (consulenza genetica e indagini citogenetiche).

Infine, i consulenti della difesa osservavano come il ragionamento medico legale dei consulenti del PM fosse risultato lineare ma incompleto, basato su un’unica ipotesi eziologica e privo di un approccio multidisciplinare e metodologicamente rigoroso. In sintesi, emergeva una valutazione indotta più dall’esigenza di trovare una causa nota che dall’effettiva ricerca di tutte le possibili concause della morte in utero. Si osservava che nel caso di specie veniva contestata un’omissione dell’imputato, consistente nel non aver disposto un ricovero preventivo della paziente nonostante i presunti segnali di allarme emersi durante la gravidanza. A tal proposito, veniva però richiamato quanto ammesso in udienza dal dott. D.L., il quale non escludeva che il decesso fetale era stato determinato da un evento acuto non prevenibile nemmeno mediante un eventuale ricovero “preventivo” e monitoraggio continuo. Di conseguenza, i consulenti della difesa concludevano nel senso di ritenere che non era nemmeno possibile comprendere quale alternativa di condotta il dott. TIZIO avrebbe dovuto adottare né quali profili di responsabilità gli si potessero attribuire nella genesi dell’esito tragico.

Ebbene, così ricostruite le emergenze probatorie, in punto di qualificazione giuridica, va innanzitutto premesso che le condotte contestate all’odierno imputato integrano, a parere di questo giudicante, non già gli estremi del reato di omicidio colposo, bensì quello di procurata interruzione colposa di gravidanza di cui all’art. 17 l. 194/1978 (oggi abrogato dall’art. 7 comma 1 lett. e) d.lg. 1° marzo 2018, n. 21 in materia di “Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103” e trasposto nell’art. 593-bis c.p.”), così dovendosi diversamente qualificare il fatto contestato, sussistendone tutti i presupposti.

La norma in esame disciplina, infatti, un’autonoma fattispecie colposa per chi cagioni l’interruzione della gravidanza o la nascita prematura del feto. Trattasi di reato comune e, in quanto tale realizzabile da chiunque; tuttavia, l’evento deve derivare dalla violazione di norme cautelari destinate a prevenire proprio il rischio di interruzione della gravidanza o di nascita prematura.

A tal riguardo, va precisato che secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità “in tema di delitti contro la persona, il criterio distintivo tra la fattispecie di interruzione colposa della gravidanza e quella di omicidio colposo si individua nell’inizio del travaglio e, dunque, nel raggiungimento dell’autonomia del feto” (Cass., Sez. IV, 29 gennaio 2013, n. 7967. Fattispecie nella quale, ai fini dell’integrazione del reato di omicidio colposo, è stato ritenuto che la morte era sopraggiunta a travaglio iniziato quando il feto, benché ancora nell’utero, aveva raggiunto una propria autonomia con la rottura del sacco contenente il liquido amniotico).

Ebbene, nel caso di specie, pur non potendosi individuare con certezza il momento esatto in cui si verificava l’evento fatale, esso deve verosimilmente collocarsi in data 25 maggio 2020 (alla luce, tra l’altro, di quanto dichiarato dalla stessa MEVIA che ha riferito di aver percepito per l’ultima volta i movimenti fetali alle ore 5.00 di quella mattina, di essersi riaddormentata, e di non averne percepiti altri dopo il suo risveglio, nonché dell’esame autoptico del feto, che presentava segni di macerazione) e, in ogni caso, con certezza prima che la donna entrasse in travaglio, atteso che, quest’ultimo, come risultante dalla cartella clinica in atti, le veniva indotto farmacologicamente solo a seguito degli esami diagnostici e strutturali che constavano l’assenza di movimenti fetali attivi e di battiti cardiaci fetali, con espulsione del feto in data 27 maggio 2020.

Orbene, tanto premesso e così riqualificati i fatti, la prospettazione accusatoria non ha trovato conforto nelle risultanze probatorie e, pertanto, non può ritenersi provata in capo a TIZIO, in qualità di ginecologo che ha avuto in cura la MEVIA durante tutto il corso della gravidanza, la realizzazione delle contestate condotte colpose – consistite nell’omettere di diagnosticare alla gestante il diabete gestazionale e lo stato di obesità gravidica di II grado (con conseguente mancata sottoposizione della donna alle indagini strumentali), nonché di disporne il tempestivo ricovero e la sottoposizioni alle opportune indagini strumentali e ai necessari controlli a seguito di tracciato con assenza di movimenti fetali attivi – causalmente connesse alla morte endouterina del feto portato in grembo dalla MEVIA.

A parere di questo giudicante, infatti, non possono condividersi le conclusioni a cui sono approdati i consulenti del PM (su cui si fondava l’ipotesi accusatoria) nel senso di ritenere colposa la condotta del dott. TIZIO , e ciò per diversi motivi.

Ed invero, in primo luogo, condivisibilmente a quanto evidenziato dai consulenti della difesa, la diagnosi di obesità di II grado della MEVIA effettuata dai consulenti del PM era fondata sui dati biometrici (peso, altezza e indice BMI) della donna al termine della gravidanza, in luogo di quelli pregravidici, ossia dei corretti parametri valutativi da porre alla base di tale diagnosi. La stessa – come peraltro ammesso dal consulente del PM, dott. D.L. in sede di escussione dibattimentale e in smentita alle conclusioni riportate nella consulenza a sua firma – era quindi errata, atteso che, durante il primo trimestre di gravidanza, l’indice BMI della paziente si attestava intorno a 30,04, corrispondente al limite tra sovrappeso e obesità di I grado. Sotto tale profilo, dunque, non pare provata la realizzazione da parte dell’odierno imputato di un’omissione colposa. In ordine all’omessa diagnosi di diabete gestazionale, che secondo l’ipotesi accusatoria sarebbe stata imposta dagli esiti della “curva da carico di glucosio” effettuata in data 2 aprile 2024, è necessario premettere che sul punto si contendono il campo due posizioni scientifiche contrapposte, entrambe emerse nel corso dell’istruttoria: da un lato, quella dei consulenti del PM, secondo cui tale diagnosi, seppur tardiva, in quanto eventualmente intervenuta solamente alla trentatreesima settimana, sarebbe stata in ogni caso dotata di validità scientifica e, dunque, doverosa in capo al TIZIO; dall’altro, quella dei consulenti della difesa, secondo cui la tardività della stessa e l’assenza di parametri di riferimento internazionali per la valutazione dopo la ventottesima settimana di gestazione l’avrebbero privata di validità diagnostica. Orbene, tale dualità e, in aggiunta, gli ulteriori dati diagnostici evidenziati dalla tesi difensiva, tra i quali l’assenza di chetonuria, di glicosuria, l’assenza dei tipici sintomi da diabete sia sulla placenta che sul feto, fanno sorgere effettivamente il dubbio circa la correttezza di tale diagnosi. Ne deriva che, non essendo emerso con certezza che dal punto di vista medico la MEVIA fosse affetta da diabete gestazionale, a parere di questo giudicante non può a maggior ragione affermarsi che sussista in capo all’imputato la responsabilità dell’omessa diagnosi di tale patologia.

Infine, quanto alla mancata disposizione da parte del TIZIO di un tempestivo ricovero della MEVIA a seguito del tracciato cardiotocografico eseguito in data 19 maggio 2020, la circostanza – da ritenersi provata, in quanto non smentita dall’accusa – che l’apparecchio medico impiegato riconnetteva la rilevazione dei movimenti fetali alla percezione soggettiva della madre e che gli altri parametri risultanti dalla lettura del tracciato computerizzato confermavano il benessere fetale (cd. criteri di Dawes- Redman), nonché gli ulteriori e approfonditi controlli cui il TIZIO sottoponeva in quella data la MEVIA (valutazione del liquido amniotico e la flussimetria dell’arteria ombelicale, entrambe nella norma, come risultante da verbale di pronto soccorso del 19 maggio, in atti), non consentono di rilevare in capo all’imputato profili colposi addebitabili a negligenza o a imprudenza.

Ma vieppiù, pur a voler ammettere che l’imputato non abbia posto in essere le condotte che, in virtù della posizione ricoperta, aveva l’obbligo giuridico di realizzare al fine di scongiurare l’evento, non risulta provata al di là di ogni ragionevole dubbio la sussistenza del nesso eziologico tra le contestate omissioni e l’evento giuridico.

Ed invero, in tema di accertamento del nesso di causalità, non possono non ricordarsi i fondamentali principi affermati in materia dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, secondo cui nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva, comportando l’esito assolutorio del giudizio l’eventuale insufficienza, contraddittorietà ed incertezza del nesso causale tra condotta ed evento, e cioè il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante dell’omissione dell’agente rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo (cfr. Cass., Sez. Un., 10 luglio 2002, n. 30328).

Inoltre, come è stato opportunamente affermato nei successivi arresti giurisprudenziali, nella ricostruzione del nesso eziologico tra la condotta omissiva del sanitario e l’evento lesivo, non si può prescindere dall’individuazione di tutti gli elementi concernenti la “causa” dell’evento (morte o lesioni del paziente), giacché solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia è poi possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e verificare, avvalendosi delle leggi statistiche o scientifiche e delle massime di esperienza che si attaglino al caso concreto, se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta (ma omessa), l’evento lesivo “al di là di ogni ragionevole dubbio” sarebbe stato evitato o si sarebbe verificato, ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (cfr. Cass., Sez. IV, 25 maggio 2005, n. 25233). In conclusione, può, dunque, affermarsi che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di  causalità tra omissione ed evento deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta credibilità razionale, nel senso che l’ipotesi scientifica o la massima di esperienza generalizzata devono avere un elevato grado di conferma e le ipotesi alternative devono essere ragionevolmente escluse, dovendosi ritenere sussistente il suddetto nesso di causalità, quando risulti accertato, all’esito di una valutazione probatoria condotta, conformemente al principio di controfattualità, sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minore intensità lesiva (cfr. Cass., Sez. IV, 4 dicembre 2013, n. 5460). Ancora in ordine all’accertamento del nesso eziologico, la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che, in punto di nesso di causa, occorre distinguere il ragionamento esplicativo dal ragionamento controfattuale. Il ragionamento esplicativo tenta di spiegare le cause di un accadimento e di individuare i fattori che lo hanno generato sulla base di giudizi causali retti da leggi scientifiche che esprimano una certa correlazione causale tra una categoria di condizioni e una categoria di eventi realmente verificatisi; nell’ambito del ragionamento esplicativo, il sapere scientifico può fornire con ragionevole approssimazione la spiegazione di un determinato evento effettivamente verificatosi quale effetto di un determinato fattore eziologico. Il giudice, con riguardo al ragionamento esplicativo, valuta con rigore le prove per stabilire se esse corroborino l’ipotesi accusatoria circa la relazione tra una determinata condotta umana e l’evento verificatosi alla luce di una legge naturale, ove  disponibile, o alla luce di regolarità statistiche o di generalizzazioni probabilistiche, secondo un  significato frequentista, fornite dagli studi del settore di riferimento. Il giudizio controfattuale (“giudizio implicativo” o “predittivo”) trova il suo terreno di elezione nel ragionamento causale in tema di reato omissivo, ma non si tratta di un ambito esclusivo in quanto tale iter logico viene seguito anche in caso di reati commissivi ancorché non si renda necessario esprimerlo nella motivazione. Si tratta di un ragionamento che implica un ulteriore tipo di indagine, avente ad oggetto la prognosi postuma di cosa sarebbe accaduto ove la condotta omessa fosse stata posta in essere. La valutazione processuale del ruolo salvifico della condotta omessa, non può che culminare in un giudizio ipotetico, con l’avvertenza che si tratta di un giudizio ipotetico che si svolge alla luce del «paradigma indiziario» disponibile (cfr. Cass., Sez. IV, 17 settembre 2010, n. 43786). In tal caso, al giudice si impone una puntuale analisi delle particolarità del caso concreto, che potrà condurre a un giudizio di elevata credibilità logica o di evidenza del probabile, indipendente da rigide quantificazioni statistiche, strettamente correlato alle caratteristiche del caso concreto sulla base di un ragiona mento probatorio non incerto. In sostanza, ciò che si impone di verificare nel giudizio controfattuale è l’elevata credibilità logica o l’evidenza del probabile dell’efficacia salvifica della condotta alternativa corretta con l’obiettivo di raggiungere una certezza processuale che sia frutto dell’elaborazione, da parte del giudice, delle evidenze disponibili (cfr. Cass., Sez. IV, 24 febbraio 2021, n. 16843)  La Corte di legittimità ha più volte chiarito come non possa dubitarsi che, in tema di nesso di causalità c’è una scansione temporale per step successivi, in quanto, il giudizio controfattuale – imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, o, in ipotesi di condotta commissiva, l’assenza della condotta commissiva vietata, avrebbe potuto evitare l’evento (cd. giudizio predittivo) richiede preliminarmente l’accertamento di ciò che è effettivamente accaduto (cd. giudizio esplicativo) per il quale la certezza processuale deve essere raggiunta (cfr. ex multis, Cass., Sez. IV, 31gennaio 2013, n. 23339).  L’operazione intellettuale che va sotto il nome di giudizio controfattuale richiede innanzitutto che venga preliminarmente descritto ciò che è accaduto; solo dopo aver accertato “che cosa è successo”, (da qui, la definizione di “giudizio esplicativo”) è possibile chiedersi cosa sarebbe stato se fosse intervenuta la condotta doverosa (“giudizio predittivo”).

Si tratta di una puntualizzazione tutt’altro che neutrale sul piano delle implicazioni. Basti pensare che, se del giudizio predittivo si ammette la validità anche in presenza di esiti non coincidenti con la certezza processuale “oltre ogni ragionevole dubbio”, sicché può dirsi che la condotta doverosa avrebbe avuto effetto impeditivo anche se tanto può affermarsi solo “con elevata probabilità logica”, per il giudizio esplicativo la certezza processuale (nei sensi sopra indicati) deve essere raggiunta. Ove si tratti di reati omissivi impropri può dirsi che la situazione tipica, donde trae origine l’indifferibilità dell’adempimento dell’obbligo di facere, deve essere identificata in termini non dubitativi; ove così                  non fosse non sarebbe possibile neppure ipotizzare l’omissione tipica. Si tratta di piani correlati ma distinti; e non sembra ammissibile che i deficit di conoscenza che incidono sul giudizio esplicativo possano essere colmati da una particolare evidenza dell’attitudine salvifica del comportamento doveroso mancato, perché in realtà senza una preliminare incontroversa delineazione del quadro fattuale quell’attitudine si può predicare solo in termini astratti (cfr. Cass., Sez. IV, 31 gennaio 2013, n. 23339). Identificata compiutamente la condotta doverosa va quindi risolto il quesito in merito alla sua valenza salvifica, impostato alla luce del parametro della significativa probabilità di scongiurare il danno (cfr. Cass., Sez. IV, 14 febbraio 2008, n. 19512).

Il condivisibile passaggio su cui occorre porre l’accento è che la regola di giudizio dell’oltre ogni ragionevole dubbio, con i canoni di valutazione delle Sezioni Unite “Franzese”, attiene al giudizio predittivo ma non a quello esplicativo. Per quest’ultimo, che deve precedere ogni altra valutazione, occorre la certezza processuale nei termini in precedenza specificati. In diverse pronunce, peraltro, la Corte di legittimità ha affermato che in tema di responsabilità medica, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità è necessario individuare tutti gli elementi concernenti la causa dell’evento, in quanto solo la conoscenza, sotto ogni profilo fattuale e scientifico, del momento iniziale e della successiva evoluzione della malattia consente l’analisi della condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, l’evento lesivo sarebbe stato evitato al di là di ogni ragionevole dubbio (cfr. Cass., Sez. IV, 4 ottobre 2012, n. 43459). Dunque, con condivisibile ragionamento logico-giuridico, la giurisprudenza della Corte di legittimità fissa una regola ermeneutica di indubbia esattezza: ancor prima di applicare il c.d. giudizio controfattuale, è necessario individuare con precisione quanto effettivamente è naturalisticamente accaduto, al fine di verificare, su siffatta incontrovertibile ricostruzione, se la identificazione di una condotta commissiva o omissiva possa valutarsi come adeguatamente e causalmente decisiva in relazione alla evitabilità dell’evento, ovvero alla sua verificazione in epoca significativamente posteriore. Il ragionamento esplicativo è il primo atto che deve compiere il giudice penale chiamato a giudicare un caso di colpa medica. Egli deve verificare, alla luce del sapere scientifico introdotto nel processo e che egli stesso può integrare con i propri poteri istruttori, qual è la causa dell’evento di cui all’editto accusatorio (morte o lesioni della persona offesa) che ha portato all’esercizio dell’azione penale nei confronti dell’imputato. Se all’esito di tale verifica il giudice penale non è in grado di appurare la causa dell’evento ovvero appura che altra è la causa dell’evento rispetto alla condotta (attiva od omissiva) ascrivibile all’imputato e quest’ultima non si pone nemmeno come concausa della morte o delle lesioni della persona offesa, ogni altra indagine non può produrre alcun effetto ai fini dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato. Solo una volta appurata la relazione tra l’azione o l’omissione ascritta all’imputato si potrà passare agli step successivi, ovvero il giudizio implicativo (c.d. giudizio controfattuale), la causalità ella colpa e la valutazione dei profili, generici o specifici, di quest’ultima. Potrà accadere, quindi, che ci si trovi di fronte a comprovati comportamenti colposi sotto il profilo, ad esempio, della negligenza, che non portano alla sanzione penale in quanto il giudice non è riuscito a correlarli causalmente con l’evento realizzatosi in danno della persona offesa (in tal senso, Cass., Sez. IV, 18 settembre 2024, n. 36942) Orbene, il giudizio esplicativo operato nel caso di specie non conduce a risposte certe. Ed invero, l’istruttoria ha lasciato irrisolta la questione relativa all’origine dell’ipossia fetale che determinava l’interruzione endouterina della gravidanza della MEVIA. Va, in proposito, sottolineato che gli stessi consulenti tecnici nominati dalla Procura, nel corso dell’escussione dibattimentale, hanno ritenuto sussistente – diversamente da quanto indicato nella consulenza a loro firma – la possibilità che l’ipossia fetale potesse essere scaturita da un evento acuto e improvviso (ad esempio la compressione della vena ombelicale o complicazioni connesse alla presenza di un cordone a bandoliera), invece che dalle patologie di obesità e di diabete gestazionale da cui la gestante era affetta, inizialmente prospettati in consulenza come unici fattori patogenetici.

La sola presenza di almeno due ricostruzioni alternative, peraltro provenienti dallo stesso collegio di consulenti, è di per sé sufficiente a far sorgere il ragionevole dubbio circa l’interferenza di fattori alternativi nella concatenazione causale. Ne deriva che l’impossibilità di ricostruire in termini di certezza processuale il decorso causale dei fatti non consente di addebitare la morte del feto, secondo i principi in tema di colpa medica elaborati dalla giurisprudenza di legittimità, alla condotta omissiva  del TIZIO, quale soggetto titolare della posizione di garanzia.

Tale considerazione – come può logicamente desumersi – impedisce peraltro la formulazione del cd. giudizio predittivo o controfattuale, ossia l’individuazione del comportamento alternativo lecito impeditivo dell’evento che l’imputato avrebbe dovuto assumere. E comunque, ad abundantiam, va precisato che dall’istruttoria nemmeno è emerso che, qualora l’imputato avesse assunto le condotte doverose asseritamente omesse (il ricovero della gestante e l’esecuzione di specifici esami diagnostici, se del caso l’effettuazione di un parto cesareo d’urgenza), avrebbe con elevato grado di probabilità logica scongiurato l’esito fatale.

In definitiva, l’impossibilità di rintracciare un nesso fra la condotta colposa dell’odierno imputato e l’evento esprime la mancata configurazione, nel caso di specie, di un profilo peculiare della tipicità oggettiva dell’illecito colposo.

Pertanto, gli elementi di valutazione che precedono postulano, ad avviso di questo giudicante, in ordine al reato in contestazione la pronunzia di una sentenza assolutoria nei confronti dell’imputato con la formula “perché il fatto non sussiste” ai sensi dell’art. 530, co. 2, c.p.p. 

Alla luce dei carichi di lavoro, si fissa in giorni novanta il termine per il deposito della motivazione. P.Q.M. Letto l’art. 530, co. 2, c.p.p. assolve TIZIO dal reato di cui all’art. 17 l. 194/1978, così riqualificato il fatto a lui ascritto, perché il fatto non sussiste.

Nola, 10 febbraio 2025. Giudice Dr. Arnaldo Merola.

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