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GARLASCO E L’INESTINGUIBILE DIRITTO DI PROCLAMARSI INNOCENTI

di Gian Domenico Caiazza

Una lunga ed approfondita puntata che la trasmissione “Le Iene” ha dedicato al delitto di Garlasco, dando ascolto al definitivamente condannato Alberto Stasi ed alla sua ferma, dignitosa e soprattutto legittima proclamazione di innocenza, ha scatenato la reazione furibonda del giornalista Gianluigi Nuzzi. La veemenza di quell’articolo (La Stampa, 25 maggio 2022), i toni sdegnati e sarcastici, l’ostentato compiacimento nel riferirsi “all’assassino” Stasi, mi ha lasciato senza fiato. Ignoro se Nuzzi abbia qualche personale ragione di animosità in relazione a questo caso (ho rinvenuto in rete un articolo non meno furibondo, in occasione dell’annuncio del ricorso per revisione da parte dei difensori di Stasi qualche anno fa). Quel che è chiaro è che egli non tollera l’idea, che a suo dire sarebbe un diffuso malcostume, per la quale chi sia stato definitivamente giudicato responsabile di un delitto, vedendosi per di più respingere -come nel caso dell’omicidio di Garlasco- l’istanza di revisione, possa continuare a proclamarsi innocente. La cosa lo indigna, e gli fa scrivere parole di fuoco. Questo -di proclamarsi vittime di un drammatico errore giudiziario- sarebbe la indecente paraculata di “assassini” (adora il termine) che “più sono colpevoli, più sollecitano…la pancia del Paese” contro le legittime sentenze. E così, “gridano al complotto ed all’errore” nella speranza di sottrarsi -sentite questo terrificante sproposito- “al braciere della verità”. E dopo averci sinistramente ricordato che “il male è un sole nero”, che non può riscaldare sentimenti di pietà o anche solo di considerazione verso chi ne è artefice, conclude tronfio: “Per scardinare un processo ci vuole l’innocenza, ed è un bene non negoziabile”.

Io guardo sempre con stupore, ma soprattutto con diffidenza e con profondo disagio, a chi ama manifestare in modo così scomposto, iattante ed assertivo una idea che si vorrebbe ispirata a rigoroso civismo, ma che è invece semplicemente becera e sinistramente ottusa. L’idea cioè che una sentenza definitiva di condanna sia la verità non più discutibile; e che discuterla equivalga a contravvenire alle regole fondative dell’ordinato vivere civile, per di più oltraggiando la pietas verso le vittime.

Le sentenze definitive si eseguono, e le condanne da esse irrogate si scontano; questa è l’unica regola civile che, a cominciare da Alberto Stasi, nessuno mette in discussione. Ma la pretesa che un imputato che si è dichiarato non colpevole dal primo minuto, per sovrappiù assistito da ben due pronunce assolutorie (!!), debba rassegnarsi alla propria colpevolezza, la dice lunga sui disastri incommensurabili che il populismo giustizialista ha prodotto in questo Paese.

Se poi ci riflettete, questa furiosa difesa della intangibilità delle sentenze emerge sempre, come acqua putrida dai tombini, solo riguardo a quelle di condanna. L’assolto no, è sempre sospettato “di averla fatta franca” (espressione davighiana ben nota, non a caso saccheggiata da Nuzzi); in tal caso coltivare il dubbio è un dovere civico, perché il delitto impunito turba i sonni, mentre il rischio dell’innocente in galera ci lascia dormire sereni come i pupi. Come osa, dunque, questo Stasi, insistere sulla propria innocenza? Non c’è limite alla decenza. Si dichiari colpevole, nel rispetto del giudicato penale, e taccia per sempre.

D’altronde, non meraviglia che a scatenarsi in questa incontrollabile indignazione sia un protagonista indiscusso dei processi mediatici, cioè del più velenoso veicolo di corruzione della idea stessa di giustizia penale nella pubblica opinione. Processi mediatici che egli – e non è certo il solo, purtroppo- celebra settimanalmente in uno studio televisivo, in parallelo con il processo in Aula, ma anche e soprattutto prima del processo in aula. Processi che, come si sa, affollano il set di consulenti paralleli, criminologi paralleli, testimoni paralleli, avvocati in cerca di gloria, psicologi che decrittano colpevolezze dalla postura dell’imputato. Processi mediatici nella quasi totalità colpevolisti, ovviamente (l’innocenza non fa audience, salvo clamorose ed imprevedibili eccezioni).

Io farei già fatica a trovare una buona ragione per rivolgermi ad un assassino confesso, dandogli dell’assassino. Ma davvero non so come si faccia a compiacersi nel dare dell’assassino a chi si è sempre proclamato innocente, come tale giudicato in ben due sentenze pronunciate sul medesimo materiale probatorio che lo ha poi voluto definitivamente colpevole. Non capisco quale sia il gusto intellettuale, di quali letture e di quali frequentazioni sia il frutto, quale sia il senso di infierire su chi la pena la sta già ordinatamente scontando.

Ma che questa lezione di indignazione un tanto al chilo debba provenire da chi usa celebrare processi in tv, ravanando nelle tragedie umane a caccia di ascolti e seminando il terreno più infido e velenoso, quello del giudizio penale popolare, beh mi è parso davvero troppo. “Il braciere della verità”?! Come direbbe Totò: ma mi faccia il piacere!

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